Fonti

Al centro del progetto Le città porto alto adriatiche e lo sviluppo della sanità pubblica in età moderna c’è la valorizzazione di un corpus di fonti manoscritte e a stampa del XVIII e del XIX che permetto la ricostruzione dell’evoluzione delle pratiche sanitarie.
Per l’accesso alle fonti si ringraziano in particolare la Fondazione Ghislieri di Pavia e l’Archivio di Stato di Pisino [ENG]. Si ringraziano anche gli Archivi di Stato di Milano e Venezia, la Biblioteca del Museo Correr e la Biblioteca Nazionale Marciana per la concessione dei materiali.
Sono espressamente vietati ulteriori utilizzi di tutte le immagini contenute nel sito.

Il Mare Adriatico ovvero Golfo di Venezia – “Atlas Maior sive Cosmographia Blauiana”, Amstelaedami, Ioannis Blaev, 1662 (Fondazione Ghislieri, Pavia).
Tra medioevo ed età moderna la Repubblica di Venezia era un centro commerciale di primaria importanza, lo snodo fondamentale tra Oriente, allora spesso chiamato Levante, e Occidente. Venezia era un grande emporio dove materie prime grezze venivano lavorate e dove i prodotti esotici del Levante venivano ridistribuiti nell’Europa continentale. L’importanza di Venezia era rispecchiata anche nelle carte geografiche del tempo: quello che per noi è oggi il Mar Adriatico, infatti, veniva indicato come Golfo di Venezia, a sottolineare il controllo che la Repubblica aveva su questa porzione di Mediterraneo. Questa dicitura era stata coniata dai cartografi veneziani, ma tale era la fama della città lagunare che venne largamente riconosciuta anche fuori dai confini della Repubblica, come testimoniato dalle mappe contenute nel magnifico “Atlas Maior” di Joan Bleau, stampato ad Amsterdam tra il 1662 e il 1672.
Nicolas Leméry, “Dizionario overo trattato universale delle droghe semplici”, Venezia, Stamperia dell’Hertz, 1737 (Fondazione Ghislieri, Pavia).
La scoperta dell’America e delle nuove rotte oceaniche erano state per Venezia un duro colpo. Nel 1500, alla notizia dell’arrivo della prima nave portoghese con un carico di pepe direttamente dall’Oceano Indiano, diverse compagnie veneziane dichiararono la bancarotta. Tuttavia, i veneziani seppero sviluppare una sorta di controffensiva. Iniziarono a spargere la voce che il pepe importato dai Portoghesi fosse di qualità inferiore a causa del lungo viaggio in mare e della cattiva conservazione e in questo modo riuscirono a mantenere una fetta di mercato. Per tutta l’età moderna, dunque, ci fu sì un declino relativo della potenza economica di Venezia, ma questa continuò ad essere un importante centro per la circolazione di beni, persone e informazioni.
Nicolas Leméry, “Dizionario overo trattato universale delle droghe semplici”, Venezia, Stamperia dell’Hertz, 1737 (Fondazione Ghislieri, Pavia).
Venezia era anche un importante canale di conoscenze ed in particolare su quelle sostanze che andavano ad affermarsi come ‘beni globali’: caffè, tè, cacao, legno del Brasile, pepe, cannella, curcuma, zucchero ed erbe medicinali come il sangue di drago, l’erba Spagna, la salsapariglia e la chinachina, quest’ultima usata per la cura delle febbri malariche. Il caffè, poi, insieme a tè, cacao e tabacco, inizialmente venne considerato come un ‘medicinale’. La vivace editoria veneziana contribuì a spiegarne uso (e potenzialità economiche) a medici, farmacisti, commercianti, dando alle stampe sia traduzioni come il “Dizionario overo trattato universale delle droghe semplici” di Nicolas Leméry (Venezia, Stamperia dell’Hertz, 1737) sia opere originali come il “Nuovo dizionario scientifico e curioso sacro-profano” di Giovanni Francesco Pivati (Venezia, per Benedetto Milocco, 1751).
Collegio medico-chirurgico di Venezia, “Registro spese fatte per la teriaca 1799-1805”, Ms. It. VII, 2374 (=9694), cc. 32v-33r (su concessione del Ministero della Cultura – Biblioteca Nazionale Marciana).
La teriaca conteneva al suo interno ingredienti da tutto il mondo: pepe, cannella, zafferano, noce moscata, vino del Peloponneso, ma soprattutto carne di vipera dai Colli Euganei e oppio, l’unica sostanza ad avere una reale efficacia nel trattamento dei dolori. Originariamente era usata contro i morsi di vipera – il nome deriva dal greco thēriakḗ, antidoto appunto – ma presto il suo impiego era stato esteso ad ogni malattia. Quella prodotta in Laguna aveva assunto nel Settecento una consolidata fama. Il successo del prodotto veneziano era dovuto a un più massiccio impiego di oppio rispetto ad altri paesi, ma anche a quella che oggi potremmo definire attenta brandizzazione. Gli speziali producevano la medicina miracolosa secondo una precisa ritualità pubblica (la cosiddetta “mostra della teriaca”), apponevano etichette che rendevano chiaramente riconoscibili le bottigliette e poi pubblicavano a stampa la lista degli ingredienti con i prezzi, senza ovviamente svelare l’equilibrio segreto della ricetta.
Archivio di Stato di Venezia, Provveditori alla sanità, b. 562, f. 2, c.c. n.n.
Venezia era un luogo di incontro tra persone, un luogo di arrivo di merci e, come si può facilmente immaginare, era anche esposta alle epidemie. Così era stato fin dalla cosiddetta Peste nera del XIV secolo, giunta dal Levante in tutta Europa con effetti devastanti: si calcola che uccise in pochi anni tra i 20 e 25 milioni di persone, un terzo dell’intera popolazione europea. Venezia era una città che viveva di commercio e che non poteva permettersi una prolungata interruzione dei traffici, una città dove si usava dire l’anima del commercio è la salute. Le autorità cittadine, perciò, tentarono di reagire prontamente e nominarono “tre sapienti deputati alla conservazione della salute”: questi si concentrarono su misure come la immediata sepoltura dei cadaveri in località remote della laguna, sperando di arginare il contagio. La peste rimase una minaccia in Europa fino alla metà del Settecento e avrebbe continuato ad essere presente in Asia e Nord Africa per tutto l’Ottocento.
La “bocca di leone” per le denunce anonime di sanità, Fondamenta delle Zattere, Venezia.
Dopo che già alcuni esperimenti in tal senso erano stati condotti a Milano, nel 1485 Venezia fu protagonista di una rivoluzione: decise di fondare la prima magistratura permanente di sanità, un modello di grande successo presto seguito in tutta Europa. Il Magistrato alla Sanità era presieduto da tre “provveditori”, cui si aggiungevano due “sopra-provveditori”: questi cinque non erano medici, ma erano di nomina politica. Il nucleo della magistratura era politico ed amministrativo, e a questa parte sovraintendeva un “avvocato fiscale”, ma vi era anche una componente medica rappresentata dal “protomedico del Magistrato” e da un “chirurgo”. I compiti e le prerogative del Magistrato erano ampi. Gli ufficiali di sanità dovevano prevenire l’insorgere di epidemie, attuando un attento controllo sulla mobilità delle persone e delle merci. Il Magistrato controllava una fitta rete informativa: fin dal Seicento sparse per la città e per tutti i domini della Repubblica c’erano le cosiddette “bocche di leone” per raccogliere le denunce contro chi contravveniva alle norme di sanità.
Il protomedico - Giovanni Grevembroch, “Gli abiti veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel sec. XVIII”, ms. Gradenigo-Dolfin 49.2, c. 160 (2022 © Biblioteca Correr - Fondazione Musei Civici di Venezia).
“In niuna Città del Mondo spicca tanto la vigilanza sopra tutte le cose, che potessero apportare detrimento alla salute del Popolo, quanto a Venezia. […] Questo supremo Magistrato che tiene autorità sopra la Vita de Contrafacenti, fra gli altri molti Officiali, elegge, e stipendia un Protomedico. […] Visita li Lazzaretti, dove si espurgano le Contumacie, esamina l’abilità delle Commadri [Levatrici], e li medicamenti invecchiati. […] Il decoroso suo Carico va soggetto in sì fatta guisa, che forse niun’altro de Publici Ministri si rende tanto responsabile”. Il protomedico era raffigurato con la lunga toga nera bordata di pelliccia, che lo rendeva riconoscibile rispetto agli altri comuni medici. Tanto nel disegno quanto nella descrizione traspare l’importanza di questa figura nella società veneziana, una società nella quale la difesa della sanità era ritenuta essenziale e dunque uno dei principali compiti dello stato.
Archivio di Stato di Venezia, Provveditori alla sanità, b. 8: “Rubrica delle leggi del Magistrato eccellentissimo alla Sanità… tomo I”, c. 1.
Le pene che il Magistrato alla Sanità poteva comminare erano severissime. Nel 1751 il falegname Francesco Lorenzoni fu condannato a morte per aver tentato di trafugare alcune balle di seta poste in quarantena. Incaricato di condurre lavori di ristrutturazione presso il Lazzaretto Vecchio, Lorenzoni aveva notato le sete giunte da Costantinopoli e aveva pensato di ricavarne un facile guadagno. Subito scoperto, fu posto in carcere e, passato un periodo di quarantena, processato e condannato. La condanna fu eseguita mediante fucilazione davanti alla sede del Magistrato, un edificio abbattuto in età napoleonica, che si trovava dove ora sorgono i Giardini reali. È probabilmente l’esecuzione dello sventurato falegname che si trova raffigurata sul frontespizio del primo tomo della “Rubrica delle leggi del Magistrato eccellentissimo alla Sanità”, compilata da Giovanni Antonio Boncio a partire dal 1770 e che raccoglie tutti i provvedimenti presi dalle autorità sanitarie veneziane.
Archivio di Stato di Milano, Atti di governo, Sanità p. a., b. 7, c.c. n.n. (su concessione del Ministero della Cultura, prot. 3492 del 26/07/2022).
La fede o patente di sanità nasce nella penisola italiana. Si trattava di foglietti prestampati che accertavano lo stato di salute del viaggiatore e consentivano il controllo della circolazione delle persone, soprattutto in periodi di epidemie. Nel corso dell’età moderna, i grandi centri del commercio come Genova, Venezia e Livorno crearono un sistema di controllo di merci e persone che rimase in vigore fino all’Ottocento e si estese anche agli altri porti delle coste mediterranee. Ogni nave, per entrare in porto e poter scaricare le proprie merci, doveva mostrare la patente che attestava lo stato di salute dell’equipaggio e soprattutto dei luoghi che il bastimento aveva toccato lungo la sua rotta. La patente veniva via via compilata e aggiornata dai magistrati di sanità delle località in cui la nave aveva fatto tappa; in buona sostanza funzionava come un moderno passaporto che viene timbrato e controllato ad ogni passaggio di frontiera.
I lazzaretti di Venezia – “Description géographique du Golfe de Venise et de la Morée, par le sieur Bellin”, Paris, Didot, 1771 (collezione privata).
Le prime pratiche di isolamento per merci e persone erano state istituite nella Repubblica di Ragusa (oggi Dubrovnik) nel 1377, ma il primo lazzaretto permanente fu creato a Venezia nel 1423, in un’isoletta vicina al Lido, oggi conosciuta come Isola del Lazzaretto Vecchio. Il sistema fu ampliato con la creazione del Lazzaretto Nuovo nel 1468 e presto imitato: a Livorno coi lazzaretti di San Rocco (1590) e poi di San Giacomo (1648) e San Leopoldo (1775), a Napoli col lazzaretto di Nisida (1626), a Dubrovnik (1642), a Genova coi lazzaretti della Foce del Bisagno (1656) e di Varignano (1724), a Nizza (1669), a La Valletta col lazzaretto di Marsamxett (1683), a Valencia (1721), a Trieste coi lazzaretti di San Carlo (1721) e Santa Teresa (1769), ad Ancona (1733) e a Minorca (1793). La stessa Venezia dotò di lazzaretti alcune delle località adriatiche sottoposte al suo dominio nel corso del Settecento, come Spalato, Castelnuovo, Corfù e Zante.
Archivio di Stato di Venezia, Provveditori alla sanità, b. 562: “Capitoli da osservarsi nelli lazzaretti”, Venezia, Pietro Pinelli, 1719.
Uno spaccato della vita in un lazzaretto adriatico di metà Settecento ce lo dà Giacomo Casanova nelle sue Memorie. Nel 1744, in viaggio da Venezia, l’avventuriero sostò ad Ancona, dove fu sottoposto ad una quarantena di 28 giorni, dati i timori per la peste che in quel tempo aveva colpito Messina e Reggio Calabria. Se la camera era gratuita, ci dice Casanova, per “un letto, un tavolo e delle sedie” bisognava invece pagare. Passeggiare nel cortile era consentito, ma non sempre: l’arrivo di nuovi ospiti e un certo sovraffollamento impedirono presto anche quest’unica attività. Eppure, se dobbiamo credere a Casanova, il pur rigido controllo non gli impedì di intrattenere una breve (ma intensa) relazione amorosa con una “bella schiava greca”. Ben diversa l’esperienza a Genova di Jean-Jacques Rousseau, che descrive un gran senso di solitudine nei suoi 28 giorni di quarantena, passati quasi come un “novello Robinson” su un’isola deserta.
Il medico industrioso – Giovanni Grevembroch, “Gli abiti veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel sec. XVIII”, ms. Gradenigo-Dolfin 49.2, c. 161 (2022 © Biblioteca Correr - Fondazione Musei Civici di Venezia).
Venezia aveva una rete informativa che le permetteva di raccogliere dati e di decidere di eventualmente sospendere i traffici con città o nazioni in cui si sospettava circolasse il contagio. Venezia condivideva tutti i provvedimenti in materia di sanità. Questa decisione aveva tuttavia fini utilitaristici: sensibilizzare gli altri stati perché evitassero il propagarsi del contagio. E anche mantenere rilevanza nel panorama internazionale. Quanto più Venezia declinava come potenza commerciale tra Sei e Settecento, tantopiù diventava un centro di raccolta e diffusione di informazioni. Nel Settecento, Venezia aveva ormai acquisito una fama consolidata per l’efficienza della sua magistratura di sanità: la città, infatti, non era più stata toccata dalla peste fin dall’epidemia del 1630-1631. Sempre più raro era vedere i caratteristici “medici della peste”, che giravano con una lunga veste chiusa di lino, bacche di ginepro per allontanare i miasmi mortiferi, occhiali protettivi, e la caratteristica maschera a becco in cera, che veniva riempita di aromi e antidoti.
Archivio di Stato di Venezia, Provveditori alla sanità, b. 562: Bernardino Leone Montanari, “Informacione del Magistrato eccellentissimo alla Sanità a richiesta del Console d’Olanda”, 14 marzo 1721, c. 1r.
Da tutta Europa giungevano richieste per conoscere non solo le informazioni sulle epidemie, ma anche i protocolli sanitari di Venezia. Nel 1721 il console d’Olanda fece domanda perché gli venissero trasmesse notizie dettagliate sulla sanità veneziana: i Paesi Bassi, vera superpotenza commerciale del tempo, guardavano (ancora) alla declinante Venezia per scoprire come gestire lazzaretti, patenti e quarantene. A rispondere con dovizia di dettagli fu Bernardino Leone Montanari, che sottolineò l’importanza della gestione sanitaria per la Repubblica: “Come la salute de’ popoli è la prima cura demandata da Dio a’ governi et a principi, così tra le massime di questa religiosa Repubblica elle ebbe sempre il primo luogo. […] A ciò di continuo veglia un Magistrato cospicuo in questa alma Dominante”.
Archivio di Stato di Venezia, Provveditori alla sanità, 562, f. 3: “Peste in Marsiglia 1720. Relazione storica”, c. 1r.
Non è un caso che questa richiesta fosse venuta nel 1721. Un anno prima una violenta epidemia di peste era scoppiata a Marsiglia. La peste di Marsiglia permette di affrontare un altro lato dell’informazione sanitaria: quello delle false notizie. Nella circolazione delle notizie sulla sanità, infatti, vi era sì un certo grado di collaborazione, ma vi era anche molta competizione. Avere il controllo della narrazione sanitaria poteva anche portare vantaggi commerciali. Fu così che Genova iniziò a far circolare una serie di false notizie secondo le quali la colpa per l’insorgere della peste andava assegnata al Magistrato di Sanità di Livorno. Con Marsiglia fuori gioco, Genova aveva tutto l’interesse a danneggiare anche l’altro grande porto del Mediterraneo occidentale, per restare così senza rivali. Marsiglia stessa, appena iniziò a riprendersi dall’epidemia, rinfocolò le accuse contro Livorno, sperando così di recuperare un’immagine di porto sicuro.
Archivio di Stato di Venezia, Provveditori alla sanità, 562, f. 6: “Principi, o siano canoni nella materia di sanità”, 1743, c. 1r.
Nel marzo 1743 la peste comparve di nuovo nel Mediterraneo. Particolarmente colpita fu Messina: su 40.000 abitanti ne morirono 28.000. La peste, intanto, era giunta anche a Santa Maura (oggi Leukás), devastata pure da un terremoto. Daniele Dolfin, Provveditore generale da mar, cui spettava il governo delle Isole Ionie veneziane, diede subito una serie di “massime di sanità”. La “sanità”, egli disse, doveva avere “unità di direzione e di legge” e “conformità e prontezza di esecuzione”. Bisognava sempre guardare a due aspetti: il “male” e il “pericolo”. Per male si intendeva il contagio: in presenza della peste bisognava agire rapidamente, isolando le persone e le zone infette. Pericolo invece significava evitare che il contagio arrivasse e quindi prevenzione, da attuarsi mediante controllo costante ed “espurghi” di “robbe, case, strade”. Sempre importante era la comunicazione con la popolazione che doveva essere istruita sulle pratiche da seguire sia in caso di male sia in caso di pericolo mediante “proclami rigorosi”.
Archivio di Stato di Venezia, Provveditori alla sanità, b. 295, c. 53r.
A partire dalla seconda metà del Seicento e sempre di più nel Settecento, grazie anche all’avanzamento delle conoscenze mediche, si avviò un processo di osservazione continua della popolazione e del territorio. I dati così raccolti iniziarono a essere usati in modo propositivo, avanzando progetti per migliorie nella gestione sanitaria. I cardini della sanità pubblica divenivano sempre di più prevenzione e cura. Gli interventi quotidiani del Magistrato si andavano moltiplicando: l’8 giugno 1767, era giunta la disturbante notizia che a Buie, nell’Istria veneta, vi fossero “delle strade talmente ingombrate d’immondizia che si rendono quasi impraticabili anche per le esalazioni fetide che tramandano”. Effettuato lo sgombero, le autorità locali prontamente inviarono anche un prospetto della zona incriminata, per mostrare come la configurazione urbana rispettasse ogni buona norma per la prevenzione di possibili epidemie, come le strade fossero sufficientemente larghe e le case distanziate.
Archivio di Stato di Venezia, Provveditori alla sanità, b. 182, 5 ottobre 1796, c.c. n.n.
Nel Settecento la sanità non era più solo sinonimo di controllo, era anche presenza sul territorio per garantire assistenza ai malati. Talvolta le aree periferiche restavano tagliate fuori, come nel caso di Seriate nel Bergamasco, allora parte della Repubblica di Venezia, che lamentava l’assenza di un medico che si potesse prendere cura dei suoi 1.600 abitanti. Il 5 ottobre 1796 un accorato appello fu inviato al Magistrato di Sanità. Come mostrava anche un disegno allegato, non vi erano medici disposti a prendersi cura della popolazione di Seriate e del suo circondario: una popolazione troppo povera per ricorrere ai “civici professori della città di Bergamo”. L’unica possibilità per non lasciare privi i “poveri infermi” di “qualunque assistenza medica” era quella di derogare alle rigide regole che normavano la professione medica e permettere a un chirurgo di agire da “fisico”.
Archivio di Stato di Venezia, Provveditori alla sanità, b. 487, disegno 2, 20 settembre 1761.
Venezia era attenta anche al controllo delle notizie. Particolare cura veniva messa nella costruzione di narrazioni positive circa le capacità della Serenissima di gestire la sanità. Al contempo, la Repubblica non si asteneva dalla diffusione di voci per danneggiare la vicina Trieste, che stava diventando una temibile concorrente. Col pretesto di minacce sanitarie, le dispute lungo i confini tra la Repubblica e l’Impero divennero sempre più frequenti. Nei primi anni Sessanta, a destare particolare preoccupazione fu un susseguirsi di epidemie bovine, che diedero l’occasione a Venezia di rafforzare i propri controlli. “A tutti i confini con queste situazioni arciducali contaminate ho fatto chiudere ogni comunicazione ed ho piantate guardie di osservazione e appostamenti di milizie per impedire l’ingresso agli austriaci, e il commercio con quelle parti”, comunicava il 20 settembre 1761 da Udine Alvise Mocenigo, Luogotenente Generale della Patria del Friuli.
Giovanni Calvi, “Tre consulti fatti in difesa dell’innesto del vaiuolo”, Milano, Gallazzi, 1762 (Fondazione Ghislieri, Pavia).
Venezia fu il punto di avvio per il dibattito europeo sull’inoculazione del vaiolo, una pratica utilizzata nell’Impero ottomano, di cui gli europei vennero a conoscenza a inizio Settecento, grazie a Jacopo Pilarino, medico originario di Cefalonia, allora parte della Serenissima, e al suo allievo Emanuele Timoni. A Venezia fu pubblicata la prima opera europea sul tema (“Nova et tuta excitandi variolas per transplantationem methodus”, 1715). Tuttavia, l’inoculazione stentava ad affermarsi in Europa: troppi erano i timori e i pregiudizi contro un metodo “straniero” e “non cristiano”. Fu per fugare questi dubbi che il medico lombardo Giovanni Calvi raccolse e pubblicò i “Tre consulti”. Unite ad un’ampia messe di dati scientifici, vi erano le argomentazioni di tre eminenti teologi toscani Francesco Raimondo Adami, Giovanni Lorenzo Berti e Gaetano Veraci, che pur di convincere il recalcitrante pubblico arrivarono ad affermare: “Chi innesta è 52 volte più pio di chi lascia correre”!
“Giornale di Medicina”, I, 1763 (Su concessione del Ministero della Cultura – Biblioteca Nazionale Marciana).
Ad inizio Settecento Venezia era stata all’avanguardia nel trasferimento delle conoscenze mediche, a metà secolo mostrava segni di ritardo rispetto al più vivace scenario europeo. Fu per questo motivo che il medico Pietro Orteschi decise di fondare il Giornale di Medicina: aggiornare i suoi colleghi, traducendo i materiali pubblicati sulla Gazette salutaire di Bouillon. Il ritardo della città di Venezia era evidente se si guardava al vaiolo: la prima inoculazione ufficiale venne eseguita solo nel 1768. Più vivaci e reattivi erano stati altri centri della Repubblica: già nel 1758 il medico Francesco Berzi aveva inoculato sua figlia a Padova e nel 1759 Antonio Colombani aveva inoculato a Pirano i suoi tre figli e poi altri 150 bambini. Nel 1764 Angelo Zulatti aveva condotto una serie di inoculazioni a Cefalonia.
Archivio di Stato di Venezia, Provveditori alla sanità, b. 562: Francesco Guadagni, “Istoria e diario dell’innesto del vajuolo”, Brescia, Pasini, 1769.
Il successo dell’operazione spinse il Magistrato alla sanità a stabilire, a partire dal 1769, due sessioni annuali di inoculazione. Questo del vaiolo è un chiaro esempio di come l’avanzare delle conoscenze mediche spingeva alla riorganizzazione del lavoro del Magistrato verso la prevenzione e la cura. Nel novembre 1769, alcune inoculazioni venivano eseguite a Brescia e documentate da Francesco Guadagni, che descrisse con dovizia di particolari i suoi piccoli pazienti. Il primo inoculato fu “Faustino, d’anni otto, mesi nove, di temperamento sanguigno, biondo, franco, determinato” che reagì benissimo, restando “allegro” durante tutto il periodo di osservazione. I rapporti servivano a fornire dati ai colleghi medici, a mostrare alle autorità la propria efficienza, ma anche a rassicurare il pubblico circa la sicurezza dell’inoculazione.
ASV, Cinque Savi alla Mercanzia, b. 227, f. 38: “Scritture circa il commercio di Trieste”, 22 agosto 1769, disegno 7, mappa di Trieste (particolare).
A metà del Settecento il primato sanitario di Venezia traballava. Non solo Venezia non era più all’avanguardia per le conoscenze mediche, ma anche la sua presa sulle politiche sanitarie mediterranee si stava allentando. Altri centri stavano emergendo. Si trattava in particolare di città porto franco. Molto in breve, un porto franco era un porto nel quale si godevano di particolari libertà – franco è infatti sinonimo di libero – di natura economica ma anche civile e religiosa. Il primo porto franco era sorto a Genova nel 1590, come esperimento per far fronte alla carenza di cereali ed evitare possibili carestie. Erano infatti gli anni della cosiddetta piccola era glaciale, un periodo di cambiamento climatico che investì la terra per circa due secoli, causando un abbassamento delle temperature. Fu seguita da Livorno nel 1591 Ma a destare la preoccupazione di Venezia era soprattutto la vicina Trieste, dichiarata porto franco nel 1719.
Il porto di Livorno – “Atlas Maior sive Cosmographia Blauiana” (Fondazione Ghislieri, Pavia).
A metà Settecento, Livorno era ormai uno dei più importanti hub del commercio globale: eppure la sua fama di porto sicuro, per quanto riguarda la sanità, era assai più incerta. Le voci sparse da Genova e Marsiglia in occasione della peste continuavano a proiettare un’ombra sul porto toscano. Facendo leva su questa cattiva fama, ancora a metà del secolo, le navi che passavano da Livorno erano sottoposte a misure più rigorose in molti porti. Si trattava in realtà di un pretesto per arginare l’ascesa di Livorno, che però non stette a guardare. Le autorità toscane si attivarono per mettere in piedi una rete informativa come quella veneziana e iniziarono a condividere con gli stati vicini notizie sanitarie, per mostrare la loro efficienza in materia. Come ebbe a dire il Cancelliere di Sanità di Livorno, Giovanni Baldasseroni, era ormai giunto il momento che fosse Livorno “a dare la regola agli altri, piuttosto che a riceverla da loro”.
Moneta coniata per l’inaugurazione del lazzaretto di Santa Teresa a Trieste il 31 luglio 1769 (collezione privata).
Livorno incominciò effettivamente a essere considerata un modello per la gestione sanitaria, tanto che quando Trieste - che pure come abbiamo visto stava crescendo e si andava affermando come importante scalo mediterraneo – decise di costruire un nuovo lazzaretto, non guardò alla vicina Venezia, dove i primi lazzaretti erano nati, ma a Livorno. Già nel 1750 si avviarono le prime consultazioni. Il dibattito si trascinò fino al 1764, quando fu inviato come consulente esterno, da Livorno, Giovanni Baldasseroni. Questi infine formulò una proposta che di fatto ricalcava le strutture sanitarie di Livorno. Il progetto fu approvato nel 1765 e finalmente il nuovo lazzaretto fu inaugurato nel 1769. Come nel migliore dei circoli virtuosi, una volta inaugurato, il lazzaretto triestino divenne il modello a cui le stesse autorità livornesi guardarono per costruire il loro nuovo lazzaretto di San Leopoldo: la stessa Trieste diventava così un centro rilevante per lo sviluppo di pratiche sanitarie.
Copia di lettera scritta da Trieste il 19 maggio 1785 al Segretario del Governatore di Livorno sopra la qualità della peste, che regna in Spalato da Francesco Belletti (collezione privata).
Livorno e Trieste avevano ormai stabilito reti informative indipendenti da Venezia, sviluppando protocolli sanitari propri senza più fare riferimento alla Serenissima, come si vede da questa missiva del 19 maggio 1785, in cui il console Francesco Belletti informa da Trieste il governatore di Livorno circa la peste che, iniziata a Tunisi nell’aprile precedente, si stava propagando nel Mediterraneo ed era giunta fino a Spalato. “La malattia si spiega con generale prostrazione di forze nelle persone colpite, e con una avversione alla luce. Vi seguitano le febbri per lo più ardentissime, la comparsa dei buboni agli inguini, e in altra parte del corpo, le lividure, il lieve decubito, e finalmente la flossezza dei cadaveri. Poco si ottenne fin’ora (la peste incominciò ad manifestarsi in Spalato il 29. Marzo) dalli rimedi curativi, per lo più inoperosi nei primi scoppi della funesta malattia, ma molto all’incontro dalla usatezza degli espurghi, dalla ventilazione dei generi infetti, o sospetti, e dalla disciplina nelle segregazioni”.
Archivio di Stato di Pisino - Pazin, HR-DAPA-16, Comune di Cittanova, 1797/1805 (Novigrad), s. 6/7 n.n.: “Lettera al Tribunale Provisionale di Cittanova dal Ces. Reg. Governo Provvisorio dell’Istria”, Capo d’Istria, 19 aprile 1799.
I documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Pisino (Pazin) permettono di osservare l’evoluzione di “Venezia dopo Venezia”. Sin dal medioveo, Pisino era il centro principale di una contea nell’Istria austriaca, dipendente dalla Carniola, con capitale Lubiana. Oggi l’Archivio conserva una ricca documentazione relativa anche all’Istria ex-veneta, vale a dire un’area costiera che fino al 1797 aveva fatto parte della Serenissima ed era poi passata, in seguito al trattato di Campoformio e alla soppressione della Repubblica, all’Austria. Per l’Istria ex-veneta fu creato un governo provvisorio con sede a Capodistria (Koper). L’Istria ex-veneta era una provincia autonoma, staccata da Venezia e dipendeva direttamente da Vienna. Nelle prime fasi si può notare una forte continuità con le pratiche sanitarie veneziane e il persistere di un sistema integrato con Venezia per quanto riguarda le questioni sanitarie.
Archivio di Stato di Pisino - Pazin, HR-DAPA-17, Comune di Parenzo (Poreč), 1797/1805, 2.1.1.7. Assistenza sanitaria, s. 6, c.c. n.n.: “Lettera alla Direzione Politica ed Economica di Parenzo dal Ces. Reg. Governo Provvisorio dell’Istria”, Capo d’Istria, 7 giugno 1799.
A fine secolo quella delle epidemie continuava a essere una paura costante. Alle tradizionali minacce della peste e del vaiolo, se ne aggiungevano di nuove. Nel 1800, la febbre gialla si affacciava in Europa travolgendo Cadice. Non sorprende che nelle città porto alto adriatiche vi fosse una continuità con la tradizione di sorveglianza sanitaria veneziana. Il controllo di merci e persone veniva ancora considerato fondamentale per la prevenzione del contagio. Tuttavia, i piccoli centri costieri dell’Istria ex-veneta destavano la preoccupazione del governo di Capodistria, per il rischio di sbarchi clandestini. Un controllo su coste estese, ricche di insenature, golfi e isole, era infatti molto difficile, senza una piena collaborazione della autorità locali, che si mostravano recalcitranti verso la dominazione austriaca. Il 7 giugno 1799, Capodistria inoltrò a Parenzo un avviso che suonava però anche come un richiamo. Non solo questi ingressi clandestini rappresentavano un rischio per la salute, ma erano anche un danno economico per tutto il territorio, che poteva venire escluso dai commerci.
Archivio di Stato di Pisino - Pazin, HR-DAPA-16, Comune di Cittanova, 1797/1805, s. 6/7 c.c. n.n.
Tra gli aspetti di continuità vi era certamente una concezione di sanità quale pratica che assumeva anche compiti di controllo sociale. Perdurava, da un lato, il convincimento che le autorità sanitarie dovessero occuparsi in senso lato di ordine pubblico e decoro urbano; dall’altro, l’idea che fossero proprio i più emarginati ad essere veicolo di contagio. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, il concetto di sanità pubblica si configurò sempre di più come scienza. Tra i fondatori di questa nuova concezione ci fu Johann Peter Frank (1746-1821). In Frank l’aspetto del controllo si compenetra con quello della scienza, dando vita ad una nuova idea di sanità pubblica che deve occuparsi, oltre che di epidemie e di sorveglianza su poveri e prostitute, anche di matrimoni e celibato, cura delle puerpere e dei neonati, insegnamento dell’educazione fisica nelle scuole, sicurezza alimentare e sul lavoro e pianificazione urbana, con particolare attenzione alla salubrità delle abitazioni, ai sistemi fognari e agli acquedotti.
Archivio di Stato di Pisino - Pazin, HR-DAPA-17, Comune di Parenzo, 1797/1805, 2.1.1.7. Assistenza sanitaria, s. 6, c.c. n.n.: “Lettera alla Direzione Politica ed Economica di Parenzo dal Ces. Reg. Governo Provvisorio dell’Istria”, Capo d’Istria, 6 febbraio 1805.
Fin dalle origini le Magistrature di sanità avevano avuto tra i loro compiti principali il controllo della mobilità delle persone. Il sistema delle patenti di sanità e delle quarantene serviva per monitorare l’ingresso di forestieri e impedire che portassero con sé malattie contagiose. Tuttavia, come mostra una missiva inviata da Capodistria a Parenzo il 6 febbraio 1805, la sorveglianza sanitaria poteva anche essere usata per impedire l’emigrazione di maestranze considerate strategiche: insomma, la sanità poteva essere un pretesto per impedire l’uscita dallo stato di lavoratori specializzati come “pannieri e vetrai, cimatori di panni, tintori”, dei quali si voleva impedire l’esodo verso “la Moldavia, Valacchia e gli Stati della Turchia”.
Archivio di Stato di Pisino - Pazin, HR-DAPA-15, Comune di Albona (Labin), 1802/1805, s.1, Trieste, 19 febbraio 1805.
Nel marzo 1804 l’assetto istituzionale dell’Istria ex-veneta subì una nuova riconfigurazione. Il fatto che il Governo di Capodistria istituito nel 1797 fosse provvisorio aveva infatti alimentato per anni le mire sull’Istria ex-veneta delle vicine Lubiana, capoluogo della Carniola, e Trieste, capoluogo del Litorale. A spuntarla fu quest’ultima. Trieste divenne dunque anche il modello e il riferimento sanitario per tutta l’area alto adriatica. Era da Trieste che giunsero ad Albona nel febbraio 1805 le “Istruzioni per gli Uffizi di Sanità sottoposti al C. R Magistrato di Sanità di Trieste e per i cordoni di sanità tirati sulle Ces. Reg. Coste dell’Istria, del Friuli, e di Trieste, onde evitare il pericolo d’infezione della febbre gialla”, un opuscolo a stampa in italiano e tedesco.
Archivio di Stato di Pisino – Pazin, HR-DAPA-15, Comune di Albona, 1802/1805, s.1, Trieste, 5 marzo 1805.
Era sempre da Trieste che giunse il “Regolamento per le fumigazioni da praticarsi inesivamente all’aulico decreto del dì 2 dicembre 1804 ne’ bastimenti e nel lazzaretto”. Il regolamento descriveva con dovizia di particolari la ricetta per i “suffumigi”, considerati il rimedio “più efficace per la distruzione dei contagi”. Spiegava poi la procedura per “la fumigazione per li bastimenti in quarantena”, che serviva a bonificare gli ambienti delle navi, le merci che trasportavano e i passeggeri che, in caso di provenienza da “porti infetti o sospetti”, dovevano esporsi “ai vapori quotidianamente almeno due volte per un quarto di ora incirca”. Le merci andavano poste nel lazzaretto e lì ventilate e poi, due giorni prima della fine della quarantena, pure sottoposte a fumigazione in apposite stanze. Particolare attenzione bisogna riservare a “lettere, scritture, merci colorite”, che andavano purificate, evitando però di scolorirle o renderle illeggibili: un modo per preservarle era, secondo il regolamento, “profumarle con l’aceto”.
Archivio di Stato di Pisino - Pazin, HR-DAPA-15, Comune di Albona, 1802/1805, s.1: “Noi Francesco II…”, Vienna 21 maggio 1805.
Nella gestione sanitaria, le autorità non si limitavano a indicazioni volte alla prevenzione e alla cura, ma legiferavano anche in senso repressivo. Così, nel maggio 1805 giunsero da Vienna una serie di “leggi penali”. Gli opuscoli a stampa furono inviati a Capodistria e da lì diffusi in tutti gli uffici di sanità e presso tutti i medici dell’Istria ex-veneta. Le trasgressioni erano divise in quattro categorie: “violazione del cordone sanitario; elusione della contumacia; prevaricazione degli obblighi annessi a quella parte d'incombenza, che alcuno tiene in questi provvedimenti sanitari; occultamento del pericolo”. Come già a Venezia “ogni qualvolta li trasgredimenti delle misure Sanitarie si rendessero frequenti in un modo pericoloso che divenga necessario di porvi freno con una procedura pronta, e capace d’incuter terrore”, si poteva ricorrere alla pena capitale mediante fucilazione.
ASP, HR-DAPA-17, Comune di Parenzo, 1797/1805, 2.1.1.7. Assistenza sanitaria, s. 6, c.c. n.n.: “Lettera alla Direzione Politica ed Economica di Parenzo dal Ces. Reg. Governo Provvisorio dell’Istria”, Capo d’Istria, 24 ottobre 1805.
Il 24 ottobre 1805, Capodistria poteva comunicare alle Direzioni Politiche istriane che la minaccia del contagio era cessata. Fu una delle ultime determinazioni austriache prima che l’Istria ex-veneta fosse riconquistata dalle truppe napoleoniche: sarebbe rimasta sotto il controllo francese fino al 1813, come parte del Regno d’Italia e poi delle Province illiriche. In età moderna per affrontare il problema della sanità si era fatto ricorso a riconfigurazioni istituzionali che, dalle città porto, si erano irraggiate nei territori circostanti creando sistemi integrati, reti collaborative e competizione. Dopo Venezia, le maggiori sperimentazioni nella gestione sanitaria erano avvenute proprio in porti franchi come Livorno e Trieste. Nel corso dell’Ottocento un susseguirsi di epidemie di colera avrebbe spinto però gli stati verso forme di cooperazione più sistematiche, alla ricerca di protocolli comuni globali: il primo gradino di questo nuovo corso sarebbe stata la Conferenza Sanitaria Internazionale che si tenne a Parigi nel 1851.